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Ἱερώτατε Μητροπολῖτα Ἰταλίας κ. Πολύκαρπε,
Vostra Eccellenza Mons. Andrea Bellandi, Arcivescovo di Salerno, Campagna e Acerno,
Eminenze, Eccellenze, Reverendissimi Padri,
Illustri Autorità,
Figli e Figlie amati nel Signore,
Vi abbracciamo e Vi salutiamo con il saluto pasquale: Cristo è Risorto! È veramente risorto!
Rispondendo al cortese invito dell’amato fratello Arcivescovo, siamo giunti dalla città di Costantino, da Costantinopoli, dalle rive del Bosforo per gioire con voi, pregare e lodare Dio “con una sola bocca ed un sol cuore” e festeggiare la Traslazione delle Sante Reliquie dell’Apostolo ed Evangelista Matteo in questa città, avvenuta secondo la tradizione il 6 maggio dell’anno 954. La Chiesa in Oriente ed in Occidente ha sempre festeggiato fin dai tempi della Chiesa Nascente la traslazione dei corpi di santi, intravvedendo in essa una particolare presenza della grazia santificante del Signore per una Chiesa locale. Questo paese, l’Italia, d’altra parte è santificato dalla presenza dei santi corpi di tre dei quattro Evangelisti, Matteo a Salerno, Marco a Venezia e Luca a Padova, ossia coloro che hanno, su ispirazione divina, composto il Corpus dei Vangeli sinottici, quelli che hanno una visione d’insieme comune dei fatti, del messaggio e della vita del nostro Salvatore, e che poi la Chiesa ha riconosciuto come autentici.
Cosa dice questo Apostolo ed Evangelista, quale insegnamento ci è stato trasmesso e continua nella sua vocazione nei secoli? Originario di Cafarnao, il suo mestiere non è tra i più nobili del tempo; un pubblicano, un esattore delle tasse per conto dei Romani, uno che su questa professione costruisce la propria ricchezza di beni terreni e, nonostante sia inserito nel proprio ambiente giudaico, non è amato dal suo popolo. Gesù lo vede al banco delle imposte e gli dice: “Seguimi” (Mc. 2,14), cioè imitami con la pratica nella vita. “Ed egli si alzò e lo seguì” (Mt. 9,9). Matteo, il cui nome significa “dono di Dio”, prima chiamato Levi, abbandona tutte le certezze, tutte le cose temporali, mentre nella sua mente si infonde la luce della grazia spirituale e gli fa comprendere che esistono tesori incorruttibili nel cielo.
Il Vangelo ci fa vedere poi la mensa in casa, dove Matteo appunto tiene un banchetto: “E molti pubblicani e peccatori si misero a mensa insieme con Gesù e i suoi discepoli” (Mc. 2,15). Anche oggi la chiamata del Signore giunge in molti cuori, si manifesta a molti. Il suo invito è una promessa affidabile, è la premessa di una gioia fondamentale per i credenti, è la certezza di sentire un raggio di luce che ci illumina, è un amore che non ha confronto. Questa chiamata ci porta a quella mensa che accoglie, testimonianza dell’amore di Dio verso la creatura, prefigurazione del Regno. Alcuni anche oggi fanno lo stesso gesto di Matteo, si alzano e lo seguono, non si chiedono perché, ma vivono il dono della nuova vita e non ascoltano i farisei che giudicano la scelta: “Come mai egli mangia e beve in compagnia di pubblicani e dei peccatori?” (Mc. 2,16). Non si lasciano sopraffare dal moralismo cieco, dalla legge vuota. Ma molti altri, troppi cristiani anche nella nostra epoca, spaventati dal giudizio del mondo, incapaci di superare il senso di colpa del peccato, preferiscono solamente osservare determinate norme di comportamento, ma non imitare il Signore. Non ascoltano quanto Gesù disse ai farisei: “Non sono i sani che hanno bisogno del medico, ma i malati; non sono venuto per chiamare i giusti, ma i peccatori” (Mc. 2,17).
Ognuno di noi deve cambiare radicalmente la propria esistenza, aprire il proprio cuore a quel “seguimi”, per poter essere sale della terra e costruire una terra nuova davanti alle tante sfide che il mondo moderno ci presenta, ma anche ai tanti pericoli che in questo periodo viviamo a livello globale, con conflitti e guerre che purtroppo nella loro continuità, riescono ad assuefare il nostro subconscio, a far accettare il tutto come una cosa inevitabile, a vedere troppi cristiani legati alla legge dei farisei, e non al movimento profetico di Cristo.
Della vita di San Matteo non sappiamo molto, oltre al fatto di essere membro del gruppo dei dodici apostoli, che condividono l’esperienza della vita di Gesù. Alcune tradizioni, come testimonia san Clemente di Alessandria lo vogliono, dopo la Pentecoste, predicatore in Etiopia, dove avrebbe anche subito il martirio. Ma non è la sua vita che ci interessa, quanto la sua testimonianza ispirata che troviamo nel primo Vangelo canonico, di cui è considerato l’autore.
Il Vangelo di Matteo è il più esteso dei Vangeli, sicuramente scritto in aramaico, la lingua del tempo tra gli Ebrei, e poi in greco, verso gli anni 62 e 70, anche per una certa consonanza con gli altri due Vangeli sinottici. Come sappiamo, esso viene già citato negli anni della Chiesa Nascente da Clemente di Roma, nonché da Ignazio di Antiochia. I Santi Padri dei primi secoli attribuiscono grande valore agli scritti di questo Vangelo, tra questi Papia di Gerapoli ed Eusebio di Cesarea, ma anche Origene considera il primo Vangelo, scritto da Matteo il Pubblicano. Dopo il Quarto secolo, non ci sono più dubbi, anche se la moderna ermeneutica vorrebbe considerare l’attribuzione in modi diversi. Certamente questo Vangelo è stato scritto per coloro che si avvicinavano al Cristianesimo e provenivano dal giudaismo, per cui era importante evidenziare il parallelismo tra la legge di Mosè ed il nuovo Mosè, il vero Messia, colui che è stato resuscitato da Dio, il generatore di un nuovo Israele, la Chiesa, convocata dal Risorto. Il testo di Matteo, infatti, è una continua dimostrazione di come la venuta di Gesù nella storia sia stata preannunciata e preparata nell’Antico Testamento e di come Egli porti a compimento le profezie.
Il testo si snoda in forma semplice e parla della nascita di Gesù, della sua infanzia, della predicazione e della sua missione tra gli uomini. Troviamo i cinque discorsi sul Regno dei Cieli e i racconti della Sua Morte e Resurrezione. Non ci soffermeremo a parlare del testo che tutti conosciamo, ma evidenziamo solo due importanti aspetti anche per la vita di noi Cristiani di questi tempi. Solo in questo Vangelo, Gesù parla di “ἐκκλησία” – ecclesia, (Mt. 16,18 e 18,17), la Chiesa-comunità che è in armonia con le antiche Scritture, la “città posta sul monte” per essere “luce del mondo”, non più un luogo geografico, ma una comunità di discepoli, una comunità messianica a cui è affidato il Regno dei Cieli per tutti i popoli. E in questa comunità l’Emanuele, il “Dio con noi”, caratteristica fondamentale della sua teologia, manifesta l’abbraccio all’intera umanità.
Questo Vangelo ci indica che, come discepoli del Signore dobbiamo essere capaci di salire con Lui sul monte per vincere la morte, fare la esperienza del Gesù Risorto e poi andare nel mondo ed immergerci nell’amore del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, per fare discepoli tutte le genti. Possiamo affermare anche noi che “il Vangelo è un annuncio di gioia e di speranza rivolto a tutta l’umanità; chi lo ascolta in profondità e lo accoglie con tutto il cuore non può restare indifferente, ma è vivamente invitato ad una scelta che gli cambierà la vita”.
Oggi, in questa antichissima Cattedrale, in preghiera ed in attesa di ritrovarci un giorno tutti assieme attorno all’unico Pane e nell’unico Calice, ricordiamo la traslazione delle Sante Reliquie di San Matteo Apostolo. Le tradizioni più antiche ricordano l’arrivo del corpo del Santo in Lucania verso il Quinto secolo, ma il suo ritrovamento, secondo il Chronicon Salernitanum, risale all’anno 954 per volontà dello stesso Santo, apparso ad una pia donna di nome Pelagia, il cui figlio, il monaco Atanasio, dopo insistenza della madre e dopo tre apparizioni, avrebbe trovato il Corpo di Matteo, nei pressi di una fonte termale della antica città di Parmenide. Dopo tre traslazioni, il 6 maggio 954 il corpo del Santo è stato conservato nella cripta di questa Cattedrale, dove tuttora è molto venerato.
Permetteteci qualche breve considerazione, alla fine, sulla importanza che le Reliquie dei Santi rivestono nella vita della Chiesa. In un mondo in cui tutto deve essere letto alla luce della logica, spiegato unicamente alla luce delle conoscenze scientifiche, ed in un mondo che vuole dimenticare la morte, ritenendola la fine di tutto e non l’inizio della vera vita, il venerare corpi e parte di corpi di uomini e donne addormentati nel Signore nel corso dei secoli e fino ai nostri giorni, riporta purtroppo l’essere umano odierno a quella separazione, giuridicamente definita nel mondo ellenistico e giudaico, tra la città dei vivi e la città dei morti.
La Chiesa Nascente invece si riunisce nel luogo di martirio dei Santi di Dio, nel luogo della loro sepoltura, perché la reliquia, visibilmente oggetto di morte, rappresenta al vivo, per il suo valore taumaturgico, un segno dell’avvenuto superamento della barriera, sino allora invalicabile, tra la vita e la morte.
Già i Padri Cappadoci, enfatizzando la venerazione per le reliquie materiali, pongono le basi per una nuova concezione del sacro, riconoscendo nel corpo, al di là delle apparenze, ormai redento dalla morte, come componente essenziale dell’uomo, partecipe anch’essa della natura divina. San Basilio di Cesarea, il Grande, commentando il Salmo 115 afferma: “Allorché la morte avveniva sotto la legge giudaica, i cadaveri erano dichiarati abominevoli; ora invece, che c’è la morte per Cristo, preziose sono le reliquie dei santi. Prima d’ora era comandato ai sacerdoti e ai nazirei: non contaminatevi con alcun cadavere … (v. Lev., Num., Aggeo). Ora al contrario, chi avrà toccato le ossa del martire riceve una qualche partecipazione alla sua santità dalla grazia che risiede nel corpo. Ecco perché è preziosa dinanzi al Signore, la morte dei suoi Santi” (M. Girardi, Basilio di Cesarea e il culto dei martiri nel IV sec.).
Proprio questa percezione delle reliquie dei santi come una loro “presenza nell’assenza” è alla base della frammentazione: essa implica infatti che la parte abbia il medesimo valore del tutto. Nell’ordine della grazia vale infatti il principio che la frammentazione non diminuisce, ma moltiplica, dottrina che la Chiesa enuncia solennemente – su un piano teologico più elevato – nella preghiera che accompagna la frazione del Pane consacrato: “spezzato ma non diviso, mangiato e mai consumato”.
Significa che anche una piccola parte di reliquia di un Santo vale come il tutto, e la sua forza taumaturgica non è frantumata, e in esse continuano a scorrere, come da una sorgente, i carismi e le grazie di cui Dio lo aveva adornato in vita.
Amati Figli nel Signore,
È una grazia tutta particolare che questa Chiesa in Salerno con il suo Arcivescovo voglia donare una reliquia del Santo Apostolo ed Evangelista Matteo alla Chiesa di Costantinopoli, la Santa e Grande Chiesa martire di Cristo, che da duemila anni, dalle rive del Bosforo ha irradiato la fede Cristiana in tutto l’Oriente dal lontano Nord, fino alle lontane steppe e in tutta l’Europa Medio Orientale e ancora in tutto il mondo. Le condizioni storiche oggi hanno ridotto numericamente il numero dei Cristiani nella nostra città, ma la forza e la importanza della nostra Chiesa resta immutata, anche difronte alle sfide del mondo attuale, dove è sempre più necessario spegnere i fondamentalismi di qualsiasi tipo, per favorire il dialogo tra le nostre Chiese e con tutti gli uomini di buona volontà.
Voglia il Signore della gloria, il Risorto dai morti per tutti noi, per le preghiere di San Matteo Apostolo ed Evangelista e di tutti i Santi, benedire questa Chiesa locale, il suo Pastore, il clero e i religiosi, questa città e tutti coloro che hanno responsabilità in essa, e tutti voi amati figli e figlie. La grazia del Signore Gesù Cristo, l’amore di Dio Padre e la comunione dello Spirito Santo sia con tutti voi. E così sia.